La pervasività dei media quali relazioni permette?
30 NOVEMBRE 2016
L’intervento al Festival DSC di Mons. Dario Edoardo Viganò, Prefetto per la Segreteria della comunicazione della Santa Sede.
Premessa
«Oggi tutti guardano la televisione o utilizzano internet, non per disporre di qualche informazione in più, ma semplicemente perché sono al “mondo”, che in televisione, e sempre di più in internet, ha la sua più estesa e completa descrizione. Religione, politica, mercato, guerra, gioia, dolore, morte sono descritti lì, e da lì ognuno apprende come si prega, come si governa, come si vende, come si compra, come si lotta, come si gode, come si soffre, come si muore, allo stesso modo di come un tempo queste cose si apprendevano dal mondo in cui si viveva».
L’incisiva citazione offre un originale punto di vista sul titolo che ci è stato affidato, in quanto evidenzia che le relazioni umane sono radicalmente mutate con l’uso della rete, dei social network e, forse, ci chiedono nuove modalità attuative, linguaggi originali e inedite tecniche narrative. Infatti, da una parte siamo consapevoli di avere a disposizione sconfinati territori informativi e relazionali, quasi che il mondo sia sempre in diretta per noi; dall’altra parte sperimentiamo il graduale affievolirsi della conversazione faccia a faccia, a favore di una comunicazione che ci consente di evitare la vicinanza, l’espressione, lo sguardo, il respiro, le reazioni, le emozioni, il volto dei nostri interlocutori. Li possiamo anche oscurare a nostro insindacabile giudizio, oppure sostituire come pezzi di ricambio consumati dall’uso.
I media hanno conquistato la nostra esistenza quotidiana, ne sono diventati, in qualche misura, l’architettura portante e la categoria ermeneutica, mentre consegniamo le chiavi dei nostri spazi e del nostro tempo agli strumenti e ai meccanismi digitali. La loro presenza, certamente, ci mette a disposizione funzioni e opportunità impensabili fino a pochi anni fa, anche se il prezzo da pagare è una modifica sostanziale dei lineamenti del nostro profilo. Infatti, «a partire dagli ultimi anni del Novecento, la tecnologia tende a minimizzare quando non addirittura a nascondere i propri apparati. Eppure, la tecnologia entra in questo periodo in forma capillare nel tessuto delle azioni e delle esperienze degli individui e dei gruppi: essa costituisce tecno-ambienti ibridi e complessi, inventa forme visibili e invisibili di interazione con i soggetti, si installa all’interno delle strutture anatomiche e biologiche dei viventi». Questi artefatti tecnologici sono una consuetudine (habitus) per la maggior parte di noi, fanno parte del corredo giornaliero, contengono il nostro mondo, i contatti, le amicizie, gli appuntamenti professionali e affettivi, le scadenze burocratiche. Sentiamo, addirittura, affermare che viviamo già in un tempo postmediale – che non significa, dopo la scomparsa dei media – anzi il nostro è un tempo di naturalizzazione della tecnologia, che offre la possibilità di smaterializzare i nostri rapporti. Paghiamo ma non vediamo il denaro, redigiamo un contratto (assicurazione, per esempio) on line, senza avere davanti un interlocutore. (Emblematica in questo senso potrebbe essere la pubblicità di “Segugio.it”. Il nostro simpatico consulente economico a quattro zampe, alquanto singolare come interlocutore, diventa “ministro del risparmio” e ora anche consigliere su come spendere i risparmi ottenuti). Continuando l’esemplificazione, succede che, invece del denaro, usiamo elementi della nostra vita per acquistare beni (pensiamo alla possibilità di ottenere servizi cedendo a qualche agenzia i dati personali, i nostri orientamenti in fatto di scelte cinematografiche o di consumi). Il riferimento è a un tema che ogni giorno diventa sempre più sensibile, perché tratta, in qualche misura, di un meccanismo di potere che invade la nostra vita. Siamo, infatti, osservati e osservatori, attori e spettatori di un gioco che prevede, come nei migliori videogame, strategie di controllo strumentale e di macchinazione, di selezione e di ricerca mirata, di osservazione e di controllo, di sorveglianza che ha conseguenze sul piano politico e morale.
Siamo, dunque, tutti sotto controllo, attraverso pratiche di sorveglianza a cui non facciamo più caso, come se fossero prassi scontate, innocue, integrate nei nostri circuiti esistenziali. Siamo protagonisti del nostro tempo e del nostro spazio, almeno così pensiamo, ma in realtà siamo soggetti a vari tipi di monitoraggio. Telecamere, videosorveglianza, ma anche la nostra stessa attività attraverso i media diventa continuamente verificabile, localizzabile, le nostre identità rilevabili, le comunicazioni tracciabili, con una intensa connessione tra attività comunicativa del soggetto e pratiche di vigilanza da parte di altri organismi. In qualsiasi momento c’è qualcuno che registra la nostra attività in rete e la conserva in una memoria raggiungibile da altri sistemi e da essi utilizzabile. Un rischio relazionale che viene descritto con precisione in questi termini: «esso non solo nasconde questa complessa rete di tracce e di controlli, ma rende gli stessi soggetti agenti di una sorveglianza crowdsourcing condivisa e generalizzata, pratica agita lucidamente e gioiosamente, mediante una sottomissione pagante e appagante ai sistemi di controllo». (Fa un certo effetto pensare che un tempo si temev a di essere osservati, lo si viveva come una sorta di incubo, oggi ci auguriamo di essere guardati, perché temiamo di essere abbandonati, ignorati, negati, esclusi, cosicché “la gioia di essere notati supera la paura di essere svelati”). Queste azioni di sorveglianza diventano anche un sistema con lo scopo di raccogliere informazioni per delineare i profili dei fruitori, orientarne i gusti e le attese, al fine di indirizzare le loro relazioni e i consumi. Vengono catturati desideri e comportamenti degli internauti, che vanno a completare strategie di marketing, abitudini e comportamenti. Pensiamo, ad esempio, a Netflix «la più grande banca dati al mondo sui consumi e sui gusti in fatto di fiction cinematografica e televisiva, è attualmente la piattaforma di distribuzione on line di contenuti capace di monitorare non solo quali sono i film e le serie più scaricate, ma altresì quali singole scene sono riviste, quali saltate, e così via». Siamo, dunque, testimoni della nascita di una vera e propria “mediapolis”, uno spazio inedito in cui siamo invitati a progettare relazioni, lavoro, economia, tempo libero, senza scordare, però, il valore del rapporto interpersonale. Infatti, nella relazione con l’altro ciascuno di noi si gioca la parte più preziosa di sé, anche mentre usa il desktop di un computer, il cellulare, l’Iphone, il tablet, perché non possiamo dimenticare che «Internet non ci ruba la nostra umanità: la rispecchia. Internet non si insinua dentro di noi: ci mostra ciò che sta dentro di noi».
Relazioni virtuali e business digitale?
«Sui mercati, i vuoti scambi di proprietà sono stati parzialmente rovesciati dall’accesso condiviso ai servizi commerciali nei network open-source. Gran parte dell’economia, come viene insegnata oggi, è sempre più irrilevante per spiegare il passato, capire il presente e prevedere il futuro» (Jeremy Rifkin). In modo sintetico e incisivo ci viene detto che la comunicazione (relazione umana) e l’economia, due cardini della nostra convivenza sociale, stanno mutando aspetto e struttura, eppure si intersecano sempre più, perché le nuove vie di comunicazione sono diventate contemporaneamente le rotte commerciali del terzo millennio. Sia le start up tecnologiche sia le multinazionali industriali, forse, hanno necessità di rimettere al centro delle loro operazioni produttive e commerciali la categoria del bene comune, senza rinunciare a strutture e meccanismi impostati sui criteri del 2.0. Nella consapevolezza che stanno cambiando i “luoghi” del mercato, dal quartiere alla piazza virtuale, sulle cui bancarelle si può acquistare e vendere tutto, Drucker riflette: «Dall’essere organizzata attorno a flussi fisici e monetari l’economia sta passando a un’organizzazione sui flussi di informazione». A Drucker fa eco Sherry Turkle, durante una intervista: «Non sono anti-tecnologia, sono pro-conversazione».
In questo scenario di grandi mutamenti Papa Francesco ci ricorda: «Non basta passare lungo le “strade” digitali, cioè semplicemente essere connessi: occorre che la connessione sia accompagnata dall’incontro vero. Non possiamo vivere da soli, rinchiusi in noi stessi. Abbiamo bisogno di amare ed essere amati. Abbiamo bisogno di tenerezza. Non sono le strategie comunicative a garantire la bellezza, la bontà e la verità della comunicazione. Anche il mondo dei media non può essere alieno dalla cura per l’umanità, ed è chiamato ad esprimere tenerezza. La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, non una rete di fili ma di persone umane. La neutralità dei media è solo apparente: solo chi comunica mettendo in gioco se stesso può rappresentare un punto di riferimento. Il coinvolgimento personale è la radice stessa dell’affidabilità di un comunicatore. Proprio per questo la testimonianza cristiana, grazie alla rete, può raggiungere le periferie esistenziali»; e ancora: «Il primo compito è quello di mettere l’economia al servizio dei popoli: gli esseri umani e la natura non devono essere al servizio del denaro. Diciamo NO a una economia di esclusione e inequità in cui il denaro domina invece di servire. Questa economia uccide. Questa economia è escludente. Questa economia distrugge la Madre Terra»; Papa Francesco traccia un percorso che, se praticato, ci consente di evitare la giungla degli interessi, le paludi della speculazione più cinica e le sabbie mobili del profitto finanziario spregiudicato. L’economia, nella sua logica, prevede certamente un utile, ma questo non può derivare da azioni contro o, addirittura, dall’eliminazione degli altri. L’economia, come disciplina che nasce per “governare la casa comune”, non può essere sottomessa alla logica rigida e impietosa di una finanza votata ai giochi più spericolati che non tengono conto dei più deboli. Il premio Nobel (1970) Paul Samuelson, a questo proposito, sottolineava che «la società deve trovare il giusto equilibrio tra la dura disciplina del mercato e l’atteggiamento compassionevole espresso attraverso i programmi di assistenza pubblica. Quando menti fredde informano cuori caldi, la scienza economica può svolgere il proprio ruolo per assicurare la creazione di una società florida e giusta».
Piattaforme digitali e territorio
La migrazione dell’economia e della comunicazione verso le piattaforme digitali hanno portato a un radicale mutamento dell’organizzazione del lavoro e dei profitti. Tutto questo può rappresentare un aspetto positivo, se non si dimentica il valore delle relazioni e dell’interazione con il luogo in cui si lavora, che diviene così espressione di una cultura, di una identità, di una appartenenza.
Su questa prospettiva è ancora Papa Francesco a indicarci la strada: «L’economia, come indica la stessa parola, dovrebbe essere l’arte di raggiungere un’adeguata amministrazione della casa comune, che è il mondo intero. Ogni azione economica di una certa portata, messa in atto in una parte del pianeta, si ripercuote sul tutto; perciò nessun governo può agire al di fuori di una comune responsabilità. Di fatto, diventa sempre più difficile individuare soluzioni a livello locale per le enormi contraddizioni globali, per cui la politica locale si riempie di problemi da risolvere. Se realmente vogliamo raggiungere una sana economia mondiale, c’è bisogno in questa fase storica di un modo più efficiente di interazione che, fatta salva la sovranità delle nazioni, assicuri il benessere economico di tutti i Paesi e non solo di pochi». Le indicazioni di Papa Francesco ci permettono di recuperare alcune categorie che rischiano, altrimenti, di passare in secondo piano nel mutato palcoscenico dell’informazione e della strutturazione imprenditoriale.
Si tratta di ritrovare il coraggio dell’identità, dal momento che nel commercio e nella comunicazione digitali è sempre più facile operare in forma impersonale, senza un contatto e una conoscenza diretta. Infatti, se viene meno qualsiasi forma di vincolo con coloro che sono coinvolti in una operazione, se non la transazione elettronica del denaro necessario per ottenere il bene o il servizio scelto, la categoria relazione diviene superflua, quantomeno assume dei contorni inusuali ed evanescenti.
La reciprocità, per passare dalla distinzione io / tu, al noi; una mutualità tra persone che tendono a un unico obiettivo riconosciuto “bene” per tutti. Questa non è una dinamica per solipsisti, ma per persone aperte alla pluralità, disponibili alla verifica della comunicazione, della comprensione dei termini e del significato attribuito alle azioni e ai risultati raggiunti. Viene in mente Pirandello nel suo Sei personaggi in cerca d’autore, in cui viene messa in scena la difficoltà a comunicare e a capirsi: «Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non c’intendiamo mai!».
La gratuità, che spinge a compiere un’azione a prescindere dall’utile che se ne può ricavare, ma in quanto è riconosciuta un bene in sé. Forse, serve ripensare il tema delle relazioni nel contesto digitale, senza demonizzare la rete come luogo distruttivo, ma per scoprire nuovi modi di stare con gli altri, senza rinunciare ai rapporti diretti, personali, con presenze reali e non esclusivamente virtuali, imparando a contemperare il senso di una stretta di mano con il click dei tasti del PC. Infatti, la vendita e l’acquisto, la cessione e il possesso non hanno più lo stesso significato, e molto più semplicemente si parla di accesso a un servizio, sia per acquistare il giornale, sia per la visione di un film o per la scelta di un CD musicale. Certamente, la diffusione planetaria di nuovi strumenti di comunicazione ha determinato la fioritura di inconsueti e significativi ambiti economici, che comunemente vanno sotto il nome di new economy e net economy, caratterizzate da nuove procedure di vendita e di acquisto. Tutto avviene a distanza, senza contatti, se non virtuali, dove la community ha sostituito la piazza del villaggio come luogo di incontro e scambi, di confronto e di contrattazione. La rete è divenuta la topografia del nostro habitat, dando una diversa fisionomia al convivere, come anticipava già vent’anni fa Don Tapscott: «L’economia digitale rivoluzionerà il modo di produrre, consumare e conoscere nel 21° secolo». Una previsione che è già divenuta realtà consolidata da parecchio tempo: «Il soggetto, infatti, non può liberarsi della sua soggettività, non può mettere semplicemente tra parentesi il suo modo di essere soggetto (abitato dal desiderio) e tornare a vivere come un semplice vivente (definito solo dai bisogni), ed è proprio per questa ragione che una simile traduzione lo costringe a dei movimenti complessi e articolati, addirittura fantasmagorici ed infine perversi, che non hanno nulla a che vedere con un’innocua inversione di marcia».
Tra bisogno e desiderio
Nei meccanismi dei media si va consolidando la convinzione che «all’interno dell’esperienza umana il consumo ha a che fare più con il desiderio che non con il bisogno, o anche: l’individuazione e la comprensione del modo particolare di consumare dell’uomo impone il passaggio dalla logica del bisogno a quella del desiderio. L’uomo, come ogni vivente, consuma perché ne ha bisogno, ma, a differenza di ogni altro vivente, egli consuma «da uomo» perché gode e godendo fa esperienza di quella pienezza d’essere che è l’ego». Siamo diventati tutti, riferendoci a un’espressione di Rifkin, soggetti alla cultura dell’accesso, come se la nostra esistenza fosse legata al fatto di poter entrare o meno in rete per godere dei servizi di cui in essa possiamo disporre. Viviamo in rete, non solo ci serviamo della rete, e di conseguenza comunichiamo e costruiamo anche le nostre strategie vitali nel mondo digitale.
In questi nuovi orizzonti esistenziali, la rivoluzione digitale ha reso possibile un fenomeno, definito disintermediazione, una sorta di linea diretta con l’informazione e con la sfera economica, resa disponibile a tutti. L’informazione, il mercato, la politica sono praticabili senza negoziatori come mai lo erano stati prima, con la prospettiva di ampliare ancor più queste opportunità digitali senza controlli interposti. Infatti, la rete ha tolto ogni confine alla possibilità di accedere immediatamente non solo a beni e servizi, ma anche a informazioni, a scelte personali, economiche (attraverso la rete si scelgono anche i candidati agli organismi politici e al governo, ad amministrare le nostre città), politiche, sociali. Si può anche organizzare un viaggio on line, “andare” in banca, chiamare un servizio di trasporto (Uber, ad esempio) o creare un palinsesto televisivo personalizzato, con uno spostamento piuttosto accentuato verso il soggetto, in un inarrestabile selfie dei vari momenti della propria giornata da “postare” in uno dei social, saziando il desiderio di visibilità.
Così, sempre più libero da mediazioni, «il soggetto cerca di rispondere con il godimento all’appello del desiderio, cerca di colmare con il godimento la mancanza come cifra del desiderio, ma poiché rispetto a tale mancanza egli non ha alcun vero sapere (se non quello di non sapere), ecco che allora finisce per pensare di non avere altra strada di fronte a sé se non quella di incrementare i consumi. … Allo sconcerto del desiderio il soggetto risponde con il concerto del godimento attraverso i consumi, e questa risposta, proprio perché si misura con uno sconcerto così radicale come quello del desiderio, non può che essere eccessiva: a livello del soggetto umano il consumo, quando è vissuto come una risposta al desiderio, non può che assumere la forma compulsiva dell’«ancora» e del «sempre di più». L’esperienza umana rivela ai nostri occhi una trama inaspettata, molto più complessa di quanto possiamo immaginare, non facilmente riconducibile a dei criteri unificanti e perciò, come sosteneva Charles de Brosses «È nell’uomo stesso che occorre studiare l’uomo: non si tratta di immaginare quel che avrebbe potuto o dovuto fare, ma di guardare a ciò che fa».
Abbiamo costituito, in effetti, un vivere strutturato in uno spazio altro rispetto al modo in cui siamo abituati a intenderlo, cioè luogo fisico in cui esserci e viverci. «Non esiste più una società costituita su base territoriale (con le sue relazioni, le sue memorie, la sua cultura, i suoi valori e le sue istituzioni) con cui le reti si confronterebbero: esistono al contrario differenti luoghi-matrice di costruzione del sociale, e questi possono essere indifferentemente territoriali, di rete, o (come spesso accade) un mix di entrambi». Chi sa gestirli esercita un potere sulla rete e, attraverso di essa, diventa capace di governare modalità di relazioni che possono venire orientate secondo precisi interessi. Per esempio, chi sa usare la rete, rispetto a chi non lo sa fare, ha un vantaggio, una forma di pre-potere (che può diventare prepotenza). Similmente, chi è in grado di “assemblare” e mettere in relazione soggetti diversi che sanno navigare in rete ha a disposizione un’altra forma di potere, come chi è in grado di mettere in rete forme di legame e di alleanza che sono nate in contesti non digitali. Ugualmente chi sa costituire nuove reti o combinare reti già esistenti acquisisce uno spazio di potere ancora più grande nella gestione, apparentemente innocua, di relazioni sociali al di fuori delle categorie spaziotemporali in cui siamo soliti muoverci per la costituzione dei nostri legami.
I media, allora, non è che non consentano la nascita e la coltivazione di relazioni, introducono dei criteri diversi, nuovi, o combinati in modo singolare. Così, danno origine a una architettura delle relazioni per certi aspetti avveniristica, che può dare il senso della vertigine, perché sembra far tramontare (oppure lo fa davvero) modalità relazionali consolidate, quasi ancestrali.
Ricomporre fratture / Superare divisioni
«L’epos della naturalizzazione della tecnologia canta dunque la nuova condizione di sintesi di natura e cultura; l’epos della soggettivazione dell’esperienza celebra la fine della frattura tra i soggetti e della loro riduzione a oggetti; infine l’epos della socializzazione esprime il superamento della distinzione tra individualità del soggetto e convenzioni del suo contesto sociale». La vita on line e quella off line chiedono una profonda integrazione anche perché l’una rende autentica l’altra e di fatto, oggi, non si ha più una separazione netta tra l’essere in rete o l’esserne fuori. Si è sempre e comunque parte di questo nuovo mondo digitale il cui reticolato, che sia frequentato o meno consapevolmente, ci avvolge tutti. Siamo, però, consapevoli che questo processo richiede un di più di responsabilità etica, con una attenta gestione di questa nuova realtà. Potremmo parlare della necessità di una “ecologia della rete e dell’ambiente digitale” affinché sia fruibile da tutti, non comporti rischi e pericoli, soprattutto per le categorie più esposte e meno attrezzate a un uso appropriato e anche critico della rete. La rete può contribuire a far crescere un’antropologia capace di rafforzare e arricchire le relazioni sociali e nello stesso tempo attenta a coltivare la dimensione trascendente dell’esistenza umana, caratteristica senza la quale nessuna esperienza può essere e dirsi autenticamente umana.
In questa prospettiva emerge la necessità di una pedagogia del desiderio e del consumo, con un equilibrio che non nasce da una negazione ma da una apertura alla capacità di sognare. Educare al desiderio significa non spingere alla ricerca spasmodica di oggetti nuovi da consumare, ma indicare traguardi da raggiungere, frontiere da superare, terreni da coltivare, relazioni da costruire. Desiderare non può essere sinonimo di fame di possesso, bulimia da accumulo, in una pulsione irrefrenabile che si consuma tra “usa e getta”. Il desiderio vero, umano, ha nella sua radice la dimensione verticale, il cielo, le stelle, qualcuno che è totalmente “Altro” da me e da tutto ciò che mi circonda.
La pedagogia del desiderio ci pone di fronte al fatto che «Il soggetto umano è abitato anche da un’altra mancanza, da una mancanza diversa dall’assenza segnalata dai suoi molti bisogni; il modo d’essere dell’uomo testimonia la presenza di un desiderio che attesta un tipo di mancanza che nessun possesso e nessun godimento ad esso connesso sono in grado di colmare». Concentriamo i nostri sforzi, allora, sulla progettazione di politiche educative che offrano opportunità per osare il futuro, ragioni per impegnarsi, decisioni e traguardi per agire. Questo progetto pedagogico ci richiede di sradicare l’indifferenza dal nostro vocabolario, per approdare a una formazione alla libertà, che superi il significato calcolatore ed egoista che la intende unicamente come pura scelta tra cose, comportamenti e persone, senza obblighi né responsabilità, per orientarla verso una assunzione adulta di impegni personali e sociali.
Tra contingenza e Infinito
In questa prospettiva pedagogica facciamo, dunque, esperienza di una impossibilità a essere tutto ciò che vorremmo essere, veniamo toccati dalla nostra finitudine. Siamo attratti dalle alte vette, da orizzonti infiniti e, contemporaneamente, sentiamo il peso dell’imperfezione e coltiviamo il desiderio di esserne liberati. Vorremmo volare alto, ma inesorabilmente ci rendiamo conto che le nostre ali sono tarpate. «L’uomo è l’unico vivente chiamato a riconoscere la verità del suo essere «un-non-tutto», è l’unico vivente capace di intendere e di rispondere alla parola che gli proviene dalla su stessa esperienza di alterità, quella che con insistenza gli dice che il suo esser-sempre-mio non potrà mai essere-un-tutto. … Il soggetto, si diceva, è «un-non-tutto», ma non per questo, si deve ora precisare, egli è un «niente». L’alternativa «tutto-o-niente» è infatti la trappola per antonomasia posta da quella pulsione a godere/consumare che inevitabilmente conduce all’idolatria e alla distruzione. … Da questo punto di vista la più sicura alternativa alla deriva distruttiva dell’idolatria è rappresentata … da un soggetto che, non confondendo il proprio «non-tutto» con un «niente», si sforza in ogni modo di abitare la terra senza per questo volerla conquistare. L’esperienza della carità che non ha alcuna pretesa di risolvere l’inquietudine umana, si configura da questo punto di vista come l’antiidolatria per eccellenza: esserci e abitare, pur nell’inquietudine e senza dominare e conquistare, è senza alcun dubbio difficile ma altrettanto certamente non impossibile». Sentiamo pulsare forte nel nostro intimo l’anelito a una relazione che superi la contingenza e ci proietti verso l’Infinito, che Papa Francesco esprime così: «Il dramma di oggi consiste nel pericolo incombente della negazione dell’identità e della dignità della persona umana. Una preoccupante colonizzazione ideologica riduce la percezione dei bisogni autentici del cuore per offrire risposte limitate che non considerano l’ampiezza della ricerca di amore, verità, bellezza, giustizia che è in ciascuno. Tutti siamo figli di questo tempo e subiamo l’influsso di una mentalità che offre nuovi valori e opportunità, ma può anche condizionare, limitare e guastare il cuore con proposte alienanti che spengono la sete di Dio. … La vita non è un desiderio assurdo, la mancanza non è il segno che siamo nati “sbagliati”, ma al contrario è il campanello che ci avverte che la nostra natura è fatta per cose grandi. … Per questo Dio, il Mistero infinito, si è curvato sul nostro niente assetato di Lui e ha offerto la risposta che tutti attendono anche senza rendersene conto, mentre la cercano nel successo, nel denaro, nel potere, nelle droghe di qualunque tipo, nell’affermazione dei propri desideri momentanei. Solo l’iniziativa di Dio creatore poteva colmare la misura del cuore; ed Egli ci è venuto incontro per lasciarsi trovare da noi come si trova un amico. E così noi possiamo riposare anche in un mare in tempesta, perché certi della sua presenza».
Grazie